FAQ N.14 CHE RUOLO AVRÀ L'IMMAGINARIO?
Tra l'incubo della catastrofe e la fede insensata nel progresso, l'alternativa è concepire un pensiero davvero libero.
Nella società di mercato siamo tutti spinti a pensarci come consumatori: di prodotti, di immagini, di politica, di relazioni. Gli esseri umani stessi, alla fine, divengono prodotti di consumo, si esibiscono e si reclamizzano, si comprano e si vendono, si usano e si gettano, come qualsiasi altra merce. Naturalmente nessuno di noi, nemmeno l'individuo più intossicato dal consumo, è solo questo, ma ci comportiamo come se fosse così. Sperimentiamo una forte difficoltà a immaginarci tranquilli se non siamo circondati da tutta una serie di oggetti e di segni che costituiscono il nostro mondo e i nostri strumenti. Fatichiamo sempre più a relazionarci tra di noi senza un piacere immediato o senza un qualunque fine strumentale. C'è come un'assuefazione a certi modi di vedere, a certi obiettivi condivisi, ma soprattutto a certe abitudini, entrate passo dopo passo nella nostra vita, che ci impediscono d'immaginare qualcosa di diverso: parlare in termini di utilità, di profitto, di guadagno, di azioni, di investimenti, di prestiti, di rate, di tassi di interessi, di crescita, di spread, di derivati, sembra divenuto così comune che la gente non fa più caso a come questo immaginario abbia intossicato il nostro stesso linguaggio, la nostra comunicazione, persino il pensiero della vita o di noi stessi.
Eppure un paradosso sta crescendo nel cuore del nostro immaginario. In effetti la civiltà che più di ogni altra ha preteso di proiettarsi nel futuro tramite la tecnologia e la ricerca spasmodica del nuovo con la svalutazione del passato, tramite l'ossessione per la crescita e una fiducia illimitata nel meccanismo del credito e delle scommesse finanziarie, in realtà si sta sporgendo di fronte a un baratro, con il dubbio di non poter sopravvivere a se stessa. Questa mercificazione pervasiva, estesa anche al futuro, finisce per minacciare l'esistenza stessa del presente. Come affermano gli psicoanalisti Miguel Bena-sayag e Gérard Schmit, stiamo assistendo al «cambiamento di segno del futuro», ovvero al passaggio da un futuro-promessa al futuro-minaccia.
Una simile società non ha avvenire, non solo per ragioni ecologiche, ma anche per ragioni antropologiche e sociali, e non è affatto strano che i paradossi del nostro immaginario si trasformino in incubi. Il nostro inconscio collettivo è abitato dall'attesa della catastrofe: dalla letteratura al cinema, dai fumetti alla televisione, il nostro immaginario, il nostro inconscio collettivo, è saturo di immagini di (auto) distruzione. In qualche misura dunque percepiamo la smisuratezza della nostra potenza distruttiva ma non siamo in grado - o abbiamo paura - di disarmare la nostra civiltà, la nostra tecnologia, la nostra economia. Così il paradosso è che più l'immaginario del progresso, della crescita, dello sviluppo illimitato si spinge avanti, e più chiude l'immagine del futuro, svuotando e atrofizzando il senso del nostro essere umani. L'onnipotenza si capovolge in minaccia contro se stessi, l'illusione della libertà assoluta si tramuta in depressione.
Oggi è necessario fuggire non da uno ma da due incubi. Parlo dell'assuefazione alla catastrofe, nella sua doppia forma della denegazione dell'ottimista tecnologico ("Non esiste nessuna crisi ecologica, nessun cambiamento climatico, nessun picco del petrolio, nessuna estinzione delle specie... la scienza troverà la soluzione, la tecnologia ci salverà") o del compiacimento, dell'attrazione fatale per l'autoannichilimento ("Non c'è niente da fare, il mondo continuerà anche senza di noi"). In effetti non solo la fiction, ma anche la scienza si risolve sempre di più a gestire la catastrofe senza prevenire, offrendoci strumenti per adattarci alla nuova situazione, palliativi per ritardare il peggio. «Una tale scienza - come aveva previsto Guy De-bord - può soltanto accompagnare verso la distruzione il mondo che l'ha prodotta e che la possiede; ma è costretta a farlo a occhi aperti».
L'immaginario della decrescita rappresenta oggi il tentativo di trovare un'alternativa a questi due incubi insensati, un ottimismo superficiale e in fondo violento e un pessimismo consolatorio. La realtà dolorosa è che almeno nei paesi più sviluppati non dobbiamo batterci solo contro le multinazionali, contro i governi, ma anche contro le nostre abitudini, i nostri stili di vita, le nostre scelte quotidiane, i nostri pensieri, e le centinaia di atti irriflessi che compiamo ogni giorno.
In questa prospettiva, ciò che è difficile oggi non è tanto immaginare un futuro alternativo, ma piuttosto concepire la nostra liberazione dalla rete di assuefazioni e dipendenze che ci siamo costruiti. Il pensiero stesso che tante cose, oggetti, abitudini, sicurezze, potrebbero scomparire molto velocemente e costringerci in tempi brevi a modificare le nostre abitudini, a riorganizzare le nostre vite, ci è in buona misura inconcepibile. Per questo, per andare incontro al cambiamento, dobbiamo esercitare il nostro immaginario volgendo gli occhi contemporaneamente verso l'interno everso l'esterno: a ciò che accade nel mondo attorno a noi, a ciò che accade dentro di noi, a ciò che accade nell'interazione continua fra i due.
Il tema della decrescita si gioca non in una versione negativa - al contrario - della società della crescita, ma nella costruzione di una pratica sociale più ricca e appassionata, di ciò che può nascere tra di noi, a partire da chi siamo e da quanto siamo disponibili a metterci in gioco. Da questo punto di vista, coloro che si raffigurano la decrescita come una proposta generosa ma utopista, e chi al contrario la immagina come una forma di autocastrazione o di automutilazione, sono entrambi in errore. La decrescita è la riscoperta del desiderio di vivere attraverso l'accettazione profonda della finitezza, della contingenza e dunque della fondamentale fragilità della vita.
Letture essenziali
Gunther Anders, Luomo è antiquato. Considerazioni sull'anima nell'epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, p. 252.
M. Benasayag e G. Schmit, Lepoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2005. Guy Debord, Il pianeta malato, nottetempo, Roma, 2007. Marie-Louise von Franz, Il mondo dei sogni, Tea, 1996. Slavoj Zizek, Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi, 2002.
in: Bruna Bianchi, Paolo Cacciari,Adriano Fragano, Paolo Scroccaro "Immaginare la società della decrescita-percorsi sostenibili verso l'età del doposviluppo" 2012 Terra Nuova Edizioni
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