lunedì 19 febbraio 2024

Cercare Alternative Nonviolente

“Liberaci dal male”. Ogni volta che recitiamo il Padre nostro, lanciamo quell'appello, di solito senza dedicare a questa piccola preghiera un pensiero particolare; talvolta, però, le parole vengono pronunciate con attenzione e una disperata urgenza. 

C’è nel mondo un oceano di male, espresso in una miriade di modi: menzogne, tradimenti, crudeltà, abusi sessuali, stupri, furti, bullismo, schiavitù e via dicendo. Il male accade negli ambiti più piccoli della vita come nei più grandi, nelle famiglie e tra le nazioni. Spesso comporta la violenza, con ferite che vanno da escoriazioni e occhi pesti a lesioni gravi o mortali. Nel caso

della guerra, innumerevoli sono le persone uccise e milioni quelle ferite. In ogni genere di conflitto spesso le cicatrici che restano sono invisibili e il disturbo da stress post-traumatico è ampiamente diffuso. Milioni di persone si trascinano da un giorno all'altro ricorrendo ad antidepressivi e sonniferi, e cè chi diventa dipendente dalle droghe. Per molti è di gran lunga più facile credere all'inferno che al paradiso. L’inferno è un'esperienza familiare. Liberarsi dai frammenti di inferno che hanno invaso la propria vita è una lotta quotidiana. Eppure la vita cristiana è molto di più che evitare il male. Nella parabola di un uomo da cui era stato scacciato un demone, Gesù afferma:

«Quando lo spirito impuro esce dall'uomo, si aggira per luoghi deserti cercando sollievo, ma non ne trova. Allora dice: “Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito”. E, venuto, la trova vuota, spazzata e adorna. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora; e l’ultima condizione di quell'uomo diventa peggiore della prima. Così avverrà anche a questa generazione malvagia (Mt 12,43-45)».

Una parabola strana. Qual è il senso? Si può trovarne una spiegazione nella fisica. I vuoti sono voraci e attirano tutto quanto è a portata di mano. Applicato alla vita spirituale, il senso è che si può riuscire a espellere uno spirito cattivo dalla propria vita, ma, a meno che qualcosa di nuovo e di vivificante non riempia lo spazio svuotato, il vuoto che è stato creato attirerà di nuovo non solo lo spirito cattivo esiliato, ma altri sette più malevoli del primo. La parabola suggerisce che uno sforzo puramente negativo di sbarazzarsi delle abitudini autodistruttive, per quanto efficace sulla breve durata, spesso crea un ambiente interiore che finisce per rendere la situazione addirittura peggiore di quella che era. Quante persone conoscete che si sono sottoposte a una dieta rigida, perdendo svariati chili, ma qualche mese dopo erano più grosse che mai? Il peso era stato perso sul momento, ma non erano ancora state acquisite quelle nuove abitudini necessarie per rendere la perdita di peso permanente.

Qualcosa di simile avviene per la violenza. La passività - rifiutarsi di rispondere con violenza alla violenza - è meglio che adottare i metodi del proprio avversario, ma non basta. Se desideriamo essere liberati dal male, di certo una parte della risposta consiste nel cercare metodi che funzionino meglio delle nostre attuali soluzioni fallaci: alternative nonviolente. Di fatto, questa ricerca va avanti da secoli e non è stata priva di frutti.

La comunità cristiana delle origini stupiva i suoi ostili vicini, a ogni livello, rifiutandosi di utilizzare mezzi violenti, che fosse per autodifesa o per ordine di chi comandava. Ma la testimonianza nonviolenta offerta dai cristiani era solo uno degli aspetti del costoso sforzo di convertire i propri nemici, invece di distruggerli. E buona cosa non fare del male ma fare del bene è meglio; bene non uccidere ma meglio salvare vite.

Questo tipo di approccio al conflitto inizia da una consapevole aspirazione a trovare soluzioni radicate nel rispetto per la vita, inclusa la vita dei nostri nemici, e nella speranza che anche loro ne trarranno beneficio. Se nessuno può essere certo di trovare sempre una risposta nonviolenta a ogni crisi che possa presentarsi, possiamo però pregare che Dio ci aiuti a escogitare metodi di resistenza al male che non soltanto evitino di nuocere agli oppositori, ma che comportino anche soluzioni migliori a quei problemi che determinano l’insorgere della violenza.

Durante lo scorso secolo, in parte anche grazie a movimenti associati a leader quali Gandhi e Martin Luther King, quella lotta nonviolenta è divenuta un’alternativa ampiamente riconosciuta alla passività da un lato, e alla violenza dall'altro. Si potrebbe mettere insieme un’enciclopedia di diversi volumi raccogliendo storie, dai tempi antichi fino ai nostri giorni, che dimostrano il potere della nonviolenza nel trasformare i cuori e le strutture sociali. Ma è negli ultimi decenni, mentre la tecnologia della violenza rendeva la guerra qualcosa di più infernale di qualunque male contro cui potesse mai essere diretta, che sono stati adottati in misura crescente degli approcci nonviolenti alla risoluzione del conflitto, da parte di quanti lottano per i diritti umani e la giustizia sociale.

A motivo del mio lavoro con diversi gruppi che promuovono approcci nonviolenti alla risoluzione del conflitto, ho avuto il privilegio di conoscere molti straordinari operatori di pace, alcuni dei quali piuttosto celebri ma la maggior parte noti principalmente nei loro paesi. Penso, per esempio, a Mario Carvalho de Jesus, conosciutissimo in Brasile ma di cui nel resto del mondo si sa poco o nulla. Grazie all'attività che stavo svolgendo intorno al 1989 con l’IFOR, mi capitò di conoscerlo. Mario è un avvocato brasiliano, sposato e padre di sette figli. Il risvegliarsi in lui di una religiosità cristiana, esperienza che visse mentre era ancora uno studente di legge, lo portò a maturare una vocazione di impegno per i poveri. Arrivò a collaborare alla nascita del Servizio per la pace e la giustizia, una rete di movimenti per la giustizia sociale latinoamericani. È anche tra i fondatori del Fronte nazionale del lavoro, un’organizzazione brasiliana di lavoratori che promuove l'applicazione della dottrina sociale cristiana mediante la nonviolenza attiva.

Nel periodo tra il 1964 e il 1985, quando il Brasile era governato da una giunta militare, il coinvolgimento di Mario con i poveri e con i sindacati lo rese un bersaglio del regime, facendolo di conseguenza finire ripetutamente in carcere. Dettaglio degno di nota: Mario possiede il dono di arrivare a tutti, inclusi i nemici, con la sua maniera affettuosa, disarmante.

Durante uno sciopero, quando venne inviata la polizia ad attaccare i lavoratori, Mario si mise alla testa dei manifestanti scandendo a voce alta lo slogan: “Lunga vita alla polizia!”. Poi andò a parlare con i poliziotti, dicendo loro: “Noi siamo vostri fratelli! Proprio come voi avete la vostra uniforme, anche noi abbiamo i nostri abiti da lavoro. Se la legge in Brasile proteggesse i diritti, saremmo stati noi a chiamarvi e a chiedervi di intervenire nei confronti del nostro capo. Ma ora che siete qui non dovete preoccuparvi per noi. Non vi creeremo problemi. Rispetteremo la proprietà e le persone”. Poi passò a spiegare agli agenti i motivi per cui i lavoratori stavano scioperando. La polizia decise di non disperdere la manifestazione. Fortunatamente, dopo quarantasei giorni, i lavoratori ottennero l’accordo che stavano cercando.

Durante i periodi trascorsi in carcere, Mario si comportava in modo altrettanto amichevole con le guardie, senza risentimento per la sua condizione di prigioniero. “Il carcere - mi disse - mi offre l'opportunità di trasmettere il messaggio evangelico alla polizia!”. Spiegava:

«Non dobbiamo avere paura di finire in prigione o di dare la nostra vita perché è proprio la paura che rafforza il sistema politico. Ricordatevi degli apostoli, quando venivano messi in prigione e picchiati. Venivano picchiati ma erano felici di dare testimonianza alla verità di Cristo. Dobbiamo preparare gli attivisti nonviolenti a essere contenti quando vengono mandati in carcere.»

Mario spiegava spesso in cosa consistesse la nonviolenza attiva:

«A un primo sguardo, il metodo della violenza è quello che impressiona maggiormente perché soddisfa i nostri impulsi aggressivi. Ma, guardando attentamente, si vede che ciò che la violenza promette non si verifica mai. Quando va bene, se si è abbastanza fortunati da stare dalla parte vincente, si scopre che molte delle persone e dei luoghi che si volevano proteggere sono andati distrutti. C’è un piccolo intervallo a disposizione - chiamato “pace” - prima del prossimo scoppio. Un altro problema della violenza è che richiede segretezza, per poter essere efficace. Gli incontri devono essere clandestini, e bisogna diffidare perfino delle persone con cui si lavora, perché c’è sempre la possibilità che una di loro sia una spia. Inoltre, il fattore della violenza impedisce di solito alla famiglia di lavorare insieme per il cambiamento sociale. Comporta il sacrificio di se stessi, il che può essere positivo, ma ha una tendenza alla corruzione e, per sua natura, distrugge. La violenza ha sempre fretta. Prospera nutrendosi di paura, collera, odio e aggressione. Usa menzogne. Nella vita di Gesù, inoltre, non c’è alcun tipo di uccisione. Lo si vede invece parlare chiaro e tondo contro la violenza. La nonviolenza attiva, però, non cerca la vittoria di un gruppo su un altro, bensì un cambiamento di cui benefici l’intera società. Si basa sulla verità e sull’amore, non sulla dominazione. È paziente. È disposta a prendersi tutto il tempo che ci vuole. È convinta che, proprio come ci siamo convertiti tu e io, anche altri possano cambiare. Chi di noi cambia grazie alle minacce? Piuttosto che far soffrire il nemico o il testimone incolpevole, la persona nonviolenta prende su di sé la sofferenza e fa tutto il possibile per proteggere chi è innocente. Con la nonviolenza attiva, tutta la famiglia può partecipare, anche il debole e l'anziano. Noi rispettiamo ogni persona e crediamo che ciascuna abbia qualcosa di buono da realizzare, qualcosa di cui tutti abbiamo bisogno. Nonviolenza significa guarire, invece che uccidere. Come i medici cercano di guarire i corpi mal funzionanti, noi cerchiamo di guarire le comunità mal funzionanti. E con la nonviolenza, possiamo sempre ispirarci alla vita di Gesù, il quale vive soltanto della verità e ci offre costantemente l'esempio della guarigione».

Un altro esempio ancora è quello offerto dalla lotta per la democrazia nelle Filippine, nel 1983. Che esito differente si avrebbe avuto, se non fosse stato per l’impegno nonviolento di così tante persone. Negli ultimi mesi prima che il dittatore Ferdinand Marcos fuggisse dal paese, sorsero delle “tendopoli” per la preghiera e la formazione alla nonviolenza in diversi centri abitati. Di ritorno da una visita ai leader del movimento di formazione alla nonviolenza nelle Filippine, Hildegard Goss-Mayr scrisse:

«Una delle tende era stata issata all’interno di un piccolo parco nel bel mezzo della zona delle banche a Manila, dove si concentrava il potere finanziario del regime di Marcos. Intorno alla tenda della preghiera, si trovavano, giorno e notte, persone che si erano impegnate a digiunare e pregare e che, nel loro digiuno e nelle loro preghiere, portavano avanti l’intero processo rivoluzionario. E io ritengo che non daremo mai abbastanza risalto a questo aspetto: che cioè in tutto quel processo c’è stata sempre questa unione di un’azione esterna nonviolenta, diretta contro un regime ingiusto, e di quella profonda spiritualità che ha dato alle persone la forza, più avanti, di restare ferme in piedi davanti ai carri armati e di affrontare i carri armati: la potenza del digiuno e della preghiera.

E nelle celebrazioni dell’eucarestia puntualizzavano che non si combatte contro gli esseri umani in carne e ossa, ma si combatte contro i demoni della ricchezza e dello sfruttamento e dell’odio che devono essere espulsi ... da se stessi, dai militari, da Marcos e dai suoi seguaci ... C'è una grande differenza ... tra incentivare l’odio e la vendetta o invece aiutare le persone a prendere posizione risolutamente per la giustizia ma, al tempo stesso, a non lasciarsi possedere dall’odio per quanti stanno dalla parte dell’oppressore ... [Si impara] a prendere posizione per la giustizia e ad amare il proprio nemico ... fino al punto di voler essere liberati, di volerlo rendere libero, di volerlo conquistare, portarlo dalla propria parte. Non si vuole la sua distruzione ma la sua liberazione».

Fu precisamente quello spirito a guidare centinaia di migliaia di persone disarmate a riempire le strade, a sbarrare il passo ai carri armati e a rivolgersi ai soldati come a fratelli e sorelle. “Tu sei uno di di noi”, ripetevano. “Tu appartieni al popolo”. Nel caso di un distaccamento di soldati inviati a prendere il controllo di una stazione televisiva, con l’ordine di farsi strada sparando se necessario, le persone che bloccavano l’ingresso accolsero i soldati offrendo loro hamburger e Coca Cola acquistati al vicino ristorante McDonald's. I soldati mangiarono gli hamburger, bevvero la Coca Cola e fecero rientro alle loro caserme.

Il 26 febbraio 1986, sconfitto da un movimento nonviolento che aveva fatto ricorso a quello che veniva chiamato “potere del popolo”, il regno di Ferdinand Marcos terminò. Lui e la moglie, Imelda, furono portati alle Hawaii da un jet dell’aviazione statunitense.

[estratto da: Jim Forest "Amare i nemici. Il comandamento più difficile". 2014]

sabato 17 febbraio 2024

La riconciliazione, inizio della pace

 [...] «L'offerta del perdono  è il momento più alto dell'evento etico e del momento teologale della Parola, perché appello alla conversione nel senso più forte di questo termine: il rovesciamento del cuore violento, la sua resa senza più resistenza. Per questo motivo la forza del perdono raggiunge anche il massimo della fragilità: il perdono dato può essere rifiutato, può lasciare indifferenti o persino suscitare risentimento. Il perdono è privo di ogni garanzia storica di avere una propria efficacia sul destinatario.

Si aggiunga che, accanto a quegli episodi dove l'identificatore dell'offensore e dell'offeso non presenta alcuna difficoltà, si distende il campo molto più ampio dove l'offesa è stata reciproca, dove ragioni e torti stanno da entrambe le parti, e perciò il perdono può essere soltanto dato e richiesto a un tempo; e il gesto complessivo è allora la proposta di riconciliazione. In ambito "politico" (assumiamo il termine nell'accezione più larga) l'inizio della pace è dato da questa volontà: accettare l'offerta di riconciliazione. Il «fare la pace» - nel senso dei «costruttori di pace» della beatitudine in Mt 5,9 - è insieme il «fare pace» e il «costruire la pace»; ma la prima pietra di questa costruzione è quella volontà di riconciliazione. Ora, la coscienza della fragilità del perdono e della riconciliazione postula un atteggiamento di fede, sia essa modulata religiosamente o meno. Bisogna credere nella pace per costruire la pace; credere nella pace come riconciliazione per costruire la pace come pienezza. Dove il "credere" va inteso in quel senso così delicato e arduo che definisce il rapporto tra persone: quell'aver fiducia che fa credito  alla possibile volontà di bene anche malgrado ogni prova contraria, ma al tempo stesso non rinuncia alla vigilanza nei confronti della ancora possibile volontà di male.

Va nella prima direzione, della fiducia incrollabile, l'assunzione della nonviolenza come elemento definitorio della politica; un'assunzione che è matura quando è consapevole della propria  qualità di miracolo. É quanto traspare da una dichiarazione fatta a suo tempo da Gerry Adams; «Qualcuno sostiene che la politica è l'arte del possibile. Ciò la sminuisce: la politica in Irlanda del Nord è l'arte dell'impossibile».

É una visione che dissipa, da un lato, l'illusione della politica come ingegneria sociale, governata da principi di necessità quasi meccanica, e, dall'altra, l'illusione supplementare che ai limiti della politica ponga riparo il ricorso sistematico alla violenza. Ma insieme il miracolo della relazione tra soggetti non ha nulla di sensazionale; e dunque la violenza non può garantire in termini di necessità mistico-magica il proprio risultato.

Questo vuol dire che l'adozione della nonviolenza come principio e motore della politica non può essere intesa come esclusione di un eventuale ed eccezionale ricorso alla violenza. Il pacifismo assoluto, inteso come negazione di tali eventualità, è fede cieca nell'efficacia della nonviolenza, dove l'aggettivo non è una maggiorazione del sostantivo, ma una sua contaminazione con elementi che le sono estranei, appartenenti al mondo dell'irrazionale. [...]

[estratto da: Armido Rizzi "Alle origini della violenza. Il nodo della cultura di pace" 2015]

lunedì 12 febbraio 2024

Sette pratiche di riconciliazione

«In quattro giorni di dibattito vennero formulate sette pratiche di riconciliazione per ricomporre le dispute all'interno del sangha [..]
La prima pratica è detta sammukha-vinaya, "sedere faccia a faccia". La disputa deve essere esposta davanti all'intera comunità, in presenza di entrambe le parti in causa. Lo scopo è di dissuadere da discussioni private che hanno inevitabilmente l'effetto di influenzare e di far parteggiare per l'una o l'altra fazione, accrescendo la tensione e la discordia.
La seconda è detta smirti-vinaya, "ricostruzione dei fatti". Le parti si sforzano di ricostruire dall'inizio le cause della disputa. Si cerca di far luce sui minimi particolari. Quando vi siano, vengono presentate prove e testimonianze. La comunità ascolta in silenzio e attenzione per raccogliere tutti i dati utili alla comprensione della disputa.
La terza è detta amudha-vinaya, "non ostinazione". Si suppone la buona volontà delle parti di risolvere il conflitto, e la comunità si aspetta che entrambi i contendenti diano prova di ricercare la riconciliazione. L'ostinazione è da considerarsi negativa e controproducente. Se una parte ammette di aver violato un precetto per ignoranza o in un momento di agitazione mentale, senza intenzione di trasgredire, la comunità ne tiene conto in vista di una soluzione equa per entrambe.
La quarta è detta tatsvabbasiya-vinaya, "confessione spontanea". Le parti vengono incoraggiate ad ammettere la propria trasgressione senza bisogno di esservi spinte dal contendente o dalla comunità. La  comunità concede tutto il tempo per dichiarare le proprie colpe, per minime che siano. L'ammissione spontanea è un grande passo verso la riconciliazione e incoraggia la parte avversa a fare altrettanto.
La quinta è detta yadbbuyasikiya-vinaya, "decisione unanime". Sentite le due parti ed essendo palese la volontà dei contendenti di giungere a un accordo, la comunità emette un verdetto unanime.
La sesta è detta pratijnakaraka-vinaya, "accettazione del verdetto". Il verdetto viene pronunciato tre volte ad alta voce. Se nessuno protesta, è considerato vincolante. Le parti non hanno il diritto di opporsi, in quanto dichiarano di avere fiducia nella decisione della comunità e di accettare il verdetto, qualunque esso sia.
La settima pratica è detta trnastaraka-vinaya, "coprire il fango con la paglia". Nella riunione, un monaco anziano è delegato a rappresentare ciascuna delle due parti. Vengono scelti due monaci di grande levatura, che godono del rispetto del sangha. Essi ascoltano con attenzione e senza intervenire, quindi esprimono la propria alta opinione, pronunciando parole capaci di lenire e guarire le ferite, di indurre la riconciliazione e il perdono, così come, stendendo sul fango della paglia, si può passare senza insudiciarsi gli abiti. La presenza di tali monaci anziani fa sì che le parti accantonino più agevolmente i meschini interessi, che le amarezze vengano addolcite e la comunità possa esprimere un verdetto equo per entrambi i contendenti».

[ Thich Nhat Hanh in: "Vita di Siddhartha il Buddha" 1991 ]

politica fondata sulla non violenza

«Lo scorso anno, maestà, mi recai nella mia famiglia, nel regno degli Sakya. Mi fermai alcuni giorni ad Arannkutila, ai piedi dell'Himalaya, e riflettei su una politica fondata sulla non violenza. Compresi che uno stato può godere di pace e sicurezza senza dover ricorrere a misure violente come imprigionare e mettere a morte. Ne parlai a mio padre, il re Suddhodana, e ora ne parlo anche a te. Un governante che regna con compassione non ha necessità di dipendere da mezzi violenti».
[ Thich Nhat Hanh in: "Vita di Siddhartha il Buddha" 1991 ]

lunedì 5 febbraio 2024

Liliana Segre: «Scelsi la vita e da quel momento sono diventata libera»

 [..] Con i suoi tredici anni Liliana si trova davanti il suo aguzzino nazista che goffamente si toglie la sua divisa per tentare di salvare la pelle, lasciandole la pistola ai piedi. Dalle fibre incorrotte della sua umanità calpestata emerge un gesto che cambia tutto. Liliana non raccoglie quella pistola, non spara perché dice a se stessa, in un immaginario dialogo con lui: «Ti lascio andare, ti lascio tornare alla tua casa, a tua moglie, ai tuoi figli».
La sua testimonianza s'è calata nel profondo della mia anima. L'ho ripresa decine di volte, nelle circostanze più diverse, fino a sentirla al vertice di quello che chiamo "l'umano". Indica la via che schiude alla pace con una drammaticità unica.  Il gesto che l'ebrea Liliana conserva in silenzio per lunghissimi anni è un gesto di bene inesauribile, che dissolve lentamente il male subito. Poi può essere comunicato, disseminato: «Io scelsi la vita e da quel momento sono diventata libera».
Un gesto di pietà verso il nemico, fecondo di salvezza per altri. Un passo che toglie a Liliana l'etichetta angusta della "sopravvissuta" - e Dio sa quanti non ne hanno sopportato il peso! - gettandola fuori da Auschwitz in una vita nuova. In quel gesto si sono spezzati i cancelli e i fili spinati interiori. Nel "lasciare andare" una persona,il nemico, ha lasciato andare il male e i suoi effetti, prendendone le distanze per sempre.
Non ha dimenticato, Liliana, ma è entrata in quella dinamica di riconciliazione che mezzo secolo più tardi, in Sudafrica, ha alimentato la giustizia riparativa da parte della vittima: generare un inizio senza vendicarsi. Un inizio sorprendente, una fessura, anzi uno squarcio da cui il futuro ha ripreso consistenza e luce, mentre il male vissuto si è inabissato nel nulla. Come tanti altri ebrei, Liliana negli anni è stata capace di "far memoria", a prezzo della sofferenza catartica di rivivere il tragico passato.

[estratto da: Franco Vaccari "stoRYcycle - la bellezza di storie rovesciate" 2018]