“Liberaci dal male”. Ogni volta che recitiamo il Padre nostro, lanciamo quell'appello, di solito senza dedicare a questa piccola preghiera un pensiero particolare; talvolta, però, le parole vengono pronunciate con attenzione e una disperata urgenza.
C’è nel mondo un oceano di male, espresso in una miriade di modi: menzogne, tradimenti, crudeltà, abusi sessuali, stupri, furti, bullismo, schiavitù e via dicendo. Il male accade negli ambiti più piccoli della vita come nei più grandi, nelle famiglie e tra le nazioni. Spesso comporta la violenza, con ferite che vanno da escoriazioni e occhi pesti a lesioni gravi o mortali. Nel caso
della guerra, innumerevoli sono le persone uccise e milioni quelle ferite. In ogni genere di conflitto spesso le cicatrici che restano sono invisibili e il disturbo da stress post-traumatico è ampiamente diffuso. Milioni di persone si trascinano da un giorno all'altro ricorrendo ad antidepressivi e sonniferi, e cè chi diventa dipendente dalle droghe. Per molti è di gran lunga più facile credere all'inferno che al paradiso. L’inferno è un'esperienza familiare. Liberarsi dai frammenti di inferno che hanno invaso la propria vita è una lotta quotidiana. Eppure la vita cristiana è molto di più che evitare il male. Nella parabola di un uomo da cui era stato scacciato un demone, Gesù afferma:
«Quando lo spirito impuro esce dall'uomo, si aggira per luoghi deserti cercando sollievo, ma non ne trova. Allora dice: “Ritornerò nella mia casa, da cui sono uscito”. E, venuto, la trova vuota, spazzata e adorna. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui, vi entrano e vi prendono dimora; e l’ultima condizione di quell'uomo diventa peggiore della prima. Così avverrà anche a questa generazione malvagia (Mt 12,43-45)».
Una parabola strana. Qual è il senso? Si può trovarne una spiegazione nella fisica. I vuoti sono voraci e attirano tutto quanto è a portata di mano. Applicato alla vita spirituale, il senso è che si può riuscire a espellere uno spirito cattivo dalla propria vita, ma, a meno che qualcosa di nuovo e di vivificante non riempia lo spazio svuotato, il vuoto che è stato creato attirerà di nuovo non solo lo spirito cattivo esiliato, ma altri sette più malevoli del primo. La parabola suggerisce che uno sforzo puramente negativo di sbarazzarsi delle abitudini autodistruttive, per quanto efficace sulla breve durata, spesso crea un ambiente interiore che finisce per rendere la situazione addirittura peggiore di quella che era. Quante persone conoscete che si sono sottoposte a una dieta rigida, perdendo svariati chili, ma qualche mese dopo erano più grosse che mai? Il peso era stato perso sul momento, ma non erano ancora state acquisite quelle nuove abitudini necessarie per rendere la perdita di peso permanente.
Qualcosa di simile avviene per la violenza. La passività - rifiutarsi di rispondere con violenza alla violenza - è meglio che adottare i metodi del proprio avversario, ma non basta. Se desideriamo essere liberati dal male, di certo una parte della risposta consiste nel cercare metodi che funzionino meglio delle nostre attuali soluzioni fallaci: alternative nonviolente. Di fatto, questa ricerca va avanti da secoli e non è stata priva di frutti.
La comunità cristiana delle origini stupiva i suoi ostili vicini, a ogni livello, rifiutandosi di utilizzare mezzi violenti, che fosse per autodifesa o per ordine di chi comandava. Ma la testimonianza nonviolenta offerta dai cristiani era solo uno degli aspetti del costoso sforzo di convertire i propri nemici, invece di distruggerli. E buona cosa non fare del male ma fare del bene è meglio; bene non uccidere ma meglio salvare vite.
Questo tipo di approccio al conflitto inizia da una consapevole aspirazione a trovare soluzioni radicate nel rispetto per la vita, inclusa la vita dei nostri nemici, e nella speranza che anche loro ne trarranno beneficio. Se nessuno può essere certo di trovare sempre una risposta nonviolenta a ogni crisi che possa presentarsi, possiamo però pregare che Dio ci aiuti a escogitare metodi di resistenza al male che non soltanto evitino di nuocere agli oppositori, ma che comportino anche soluzioni migliori a quei problemi che determinano l’insorgere della violenza.
Durante lo scorso secolo, in parte anche grazie a movimenti associati a leader quali Gandhi e Martin Luther King, quella lotta nonviolenta è divenuta un’alternativa ampiamente riconosciuta alla passività da un lato, e alla violenza dall'altro. Si potrebbe mettere insieme un’enciclopedia di diversi volumi raccogliendo storie, dai tempi antichi fino ai nostri giorni, che dimostrano il potere della nonviolenza nel trasformare i cuori e le strutture sociali. Ma è negli ultimi decenni, mentre la tecnologia della violenza rendeva la guerra qualcosa di più infernale di qualunque male contro cui potesse mai essere diretta, che sono stati adottati in misura crescente degli approcci nonviolenti alla risoluzione del conflitto, da parte di quanti lottano per i diritti umani e la giustizia sociale.
A motivo del mio lavoro con diversi gruppi che promuovono approcci nonviolenti alla risoluzione del conflitto, ho avuto il privilegio di conoscere molti straordinari operatori di pace, alcuni dei quali piuttosto celebri ma la maggior parte noti principalmente nei loro paesi. Penso, per esempio, a Mario Carvalho de Jesus, conosciutissimo in Brasile ma di cui nel resto del mondo si sa poco o nulla. Grazie all'attività che stavo svolgendo intorno al 1989 con l’IFOR, mi capitò di conoscerlo. Mario è un avvocato brasiliano, sposato e padre di sette figli. Il risvegliarsi in lui di una religiosità cristiana, esperienza che visse mentre era ancora uno studente di legge, lo portò a maturare una vocazione di impegno per i poveri. Arrivò a collaborare alla nascita del Servizio per la pace e la giustizia, una rete di movimenti per la giustizia sociale latinoamericani. È anche tra i fondatori del Fronte nazionale del lavoro, un’organizzazione brasiliana di lavoratori che promuove l'applicazione della dottrina sociale cristiana mediante la nonviolenza attiva.
Nel periodo tra il 1964 e il 1985, quando il Brasile era governato da una giunta militare, il coinvolgimento di Mario con i poveri e con i sindacati lo rese un bersaglio del regime, facendolo di conseguenza finire ripetutamente in carcere. Dettaglio degno di nota: Mario possiede il dono di arrivare a tutti, inclusi i nemici, con la sua maniera affettuosa, disarmante.
Durante uno sciopero, quando venne inviata la polizia ad attaccare i lavoratori, Mario si mise alla testa dei manifestanti scandendo a voce alta lo slogan: “Lunga vita alla polizia!”. Poi andò a parlare con i poliziotti, dicendo loro: “Noi siamo vostri fratelli! Proprio come voi avete la vostra uniforme, anche noi abbiamo i nostri abiti da lavoro. Se la legge in Brasile proteggesse i diritti, saremmo stati noi a chiamarvi e a chiedervi di intervenire nei confronti del nostro capo. Ma ora che siete qui non dovete preoccuparvi per noi. Non vi creeremo problemi. Rispetteremo la proprietà e le persone”. Poi passò a spiegare agli agenti i motivi per cui i lavoratori stavano scioperando. La polizia decise di non disperdere la manifestazione. Fortunatamente, dopo quarantasei giorni, i lavoratori ottennero l’accordo che stavano cercando.
Durante i periodi trascorsi in carcere, Mario si comportava in modo altrettanto amichevole con le guardie, senza risentimento per la sua condizione di prigioniero. “Il carcere - mi disse - mi offre l'opportunità di trasmettere il messaggio evangelico alla polizia!”. Spiegava:
«Non dobbiamo avere paura di finire in prigione o di dare la nostra vita perché è proprio la paura che rafforza il sistema politico. Ricordatevi degli apostoli, quando venivano messi in prigione e picchiati. Venivano picchiati ma erano felici di dare testimonianza alla verità di Cristo. Dobbiamo preparare gli attivisti nonviolenti a essere contenti quando vengono mandati in carcere.»
Mario spiegava spesso in cosa consistesse la nonviolenza attiva:
«A un primo sguardo, il metodo della violenza è quello che impressiona maggiormente perché soddisfa i nostri impulsi aggressivi. Ma, guardando attentamente, si vede che ciò che la violenza promette non si verifica mai. Quando va bene, se si è abbastanza fortunati da stare dalla parte vincente, si scopre che molte delle persone e dei luoghi che si volevano proteggere sono andati distrutti. C’è un piccolo intervallo a disposizione - chiamato “pace” - prima del prossimo scoppio. Un altro problema della violenza è che richiede segretezza, per poter essere efficace. Gli incontri devono essere clandestini, e bisogna diffidare perfino delle persone con cui si lavora, perché c’è sempre la possibilità che una di loro sia una spia. Inoltre, il fattore della violenza impedisce di solito alla famiglia di lavorare insieme per il cambiamento sociale. Comporta il sacrificio di se stessi, il che può essere positivo, ma ha una tendenza alla corruzione e, per sua natura, distrugge. La violenza ha sempre fretta. Prospera nutrendosi di paura, collera, odio e aggressione. Usa menzogne. Nella vita di Gesù, inoltre, non c’è alcun tipo di uccisione. Lo si vede invece parlare chiaro e tondo contro la violenza. La nonviolenza attiva, però, non cerca la vittoria di un gruppo su un altro, bensì un cambiamento di cui benefici l’intera società. Si basa sulla verità e sull’amore, non sulla dominazione. È paziente. È disposta a prendersi tutto il tempo che ci vuole. È convinta che, proprio come ci siamo convertiti tu e io, anche altri possano cambiare. Chi di noi cambia grazie alle minacce? Piuttosto che far soffrire il nemico o il testimone incolpevole, la persona nonviolenta prende su di sé la sofferenza e fa tutto il possibile per proteggere chi è innocente. Con la nonviolenza attiva, tutta la famiglia può partecipare, anche il debole e l'anziano. Noi rispettiamo ogni persona e crediamo che ciascuna abbia qualcosa di buono da realizzare, qualcosa di cui tutti abbiamo bisogno. Nonviolenza significa guarire, invece che uccidere. Come i medici cercano di guarire i corpi mal funzionanti, noi cerchiamo di guarire le comunità mal funzionanti. E con la nonviolenza, possiamo sempre ispirarci alla vita di Gesù, il quale vive soltanto della verità e ci offre costantemente l'esempio della guarigione».
Un altro esempio ancora è quello offerto dalla lotta per la democrazia nelle Filippine, nel 1983. Che esito differente si avrebbe avuto, se non fosse stato per l’impegno nonviolento di così tante persone. Negli ultimi mesi prima che il dittatore Ferdinand Marcos fuggisse dal paese, sorsero delle “tendopoli” per la preghiera e la formazione alla nonviolenza in diversi centri abitati. Di ritorno da una visita ai leader del movimento di formazione alla nonviolenza nelle Filippine, Hildegard Goss-Mayr scrisse:
«Una delle tende era stata issata all’interno di un piccolo parco nel bel mezzo della zona delle banche a Manila, dove si concentrava il potere finanziario del regime di Marcos. Intorno alla tenda della preghiera, si trovavano, giorno e notte, persone che si erano impegnate a digiunare e pregare e che, nel loro digiuno e nelle loro preghiere, portavano avanti l’intero processo rivoluzionario. E io ritengo che non daremo mai abbastanza risalto a questo aspetto: che cioè in tutto quel processo c’è stata sempre questa unione di un’azione esterna nonviolenta, diretta contro un regime ingiusto, e di quella profonda spiritualità che ha dato alle persone la forza, più avanti, di restare ferme in piedi davanti ai carri armati e di affrontare i carri armati: la potenza del digiuno e della preghiera.
E nelle celebrazioni dell’eucarestia puntualizzavano che non si combatte contro gli esseri umani in carne e ossa, ma si combatte contro i demoni della ricchezza e dello sfruttamento e dell’odio che devono essere espulsi ... da se stessi, dai militari, da Marcos e dai suoi seguaci ... C'è una grande differenza ... tra incentivare l’odio e la vendetta o invece aiutare le persone a prendere posizione risolutamente per la giustizia ma, al tempo stesso, a non lasciarsi possedere dall’odio per quanti stanno dalla parte dell’oppressore ... [Si impara] a prendere posizione per la giustizia e ad amare il proprio nemico ... fino al punto di voler essere liberati, di volerlo rendere libero, di volerlo conquistare, portarlo dalla propria parte. Non si vuole la sua distruzione ma la sua liberazione».
Fu precisamente quello spirito a guidare centinaia di migliaia di persone disarmate a riempire le strade, a sbarrare il passo ai carri armati e a rivolgersi ai soldati come a fratelli e sorelle. “Tu sei uno di di noi”, ripetevano. “Tu appartieni al popolo”. Nel caso di un distaccamento di soldati inviati a prendere il controllo di una stazione televisiva, con l’ordine di farsi strada sparando se necessario, le persone che bloccavano l’ingresso accolsero i soldati offrendo loro hamburger e Coca Cola acquistati al vicino ristorante McDonald's. I soldati mangiarono gli hamburger, bevvero la Coca Cola e fecero rientro alle loro caserme.
Il 26 febbraio 1986, sconfitto da un movimento nonviolento che aveva fatto ricorso a quello che veniva chiamato “potere del popolo”, il regno di Ferdinand Marcos terminò. Lui e la moglie, Imelda, furono portati alle Hawaii da un jet dell’aviazione statunitense.
[estratto da: Jim Forest "Amare i nemici. Il comandamento più difficile". 2014]
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