[...] «L'offerta del perdono è il momento più alto dell'evento etico e del momento teologale della Parola, perché appello alla conversione nel senso più forte di questo termine: il rovesciamento del cuore violento, la sua resa senza più resistenza. Per questo motivo la forza del perdono raggiunge anche il massimo della fragilità: il perdono dato può essere rifiutato, può lasciare indifferenti o persino suscitare risentimento. Il perdono è privo di ogni garanzia storica di avere una propria efficacia sul destinatario.
Si aggiunga che, accanto a quegli episodi dove l'identificatore dell'offensore e dell'offeso non presenta alcuna difficoltà, si distende il campo molto più ampio dove l'offesa è stata reciproca, dove ragioni e torti stanno da entrambe le parti, e perciò il perdono può essere soltanto dato e richiesto a un tempo; e il gesto complessivo è allora la proposta di riconciliazione. In ambito "politico" (assumiamo il termine nell'accezione più larga) l'inizio della pace è dato da questa volontà: accettare l'offerta di riconciliazione. Il «fare la pace» - nel senso dei «costruttori di pace» della beatitudine in Mt 5,9 - è insieme il «fare pace» e il «costruire la pace»; ma la prima pietra di questa costruzione è quella volontà di riconciliazione. Ora, la coscienza della fragilità del perdono e della riconciliazione postula un atteggiamento di fede, sia essa modulata religiosamente o meno. Bisogna credere nella pace per costruire la pace; credere nella pace come riconciliazione per costruire la pace come pienezza. Dove il "credere" va inteso in quel senso così delicato e arduo che definisce il rapporto tra persone: quell'aver fiducia che fa credito alla possibile volontà di bene anche malgrado ogni prova contraria, ma al tempo stesso non rinuncia alla vigilanza nei confronti della ancora possibile volontà di male.
Va nella prima direzione, della fiducia incrollabile, l'assunzione della nonviolenza come elemento definitorio della politica; un'assunzione che è matura quando è consapevole della propria qualità di miracolo. É quanto traspare da una dichiarazione fatta a suo tempo da Gerry Adams; «Qualcuno sostiene che la politica è l'arte del possibile. Ciò la sminuisce: la politica in Irlanda del Nord è l'arte dell'impossibile».
É una visione che dissipa, da un lato, l'illusione della politica come ingegneria sociale, governata da principi di necessità quasi meccanica, e, dall'altra, l'illusione supplementare che ai limiti della politica ponga riparo il ricorso sistematico alla violenza. Ma insieme il miracolo della relazione tra soggetti non ha nulla di sensazionale; e dunque la violenza non può garantire in termini di necessità mistico-magica il proprio risultato.
Questo vuol dire che l'adozione della nonviolenza come principio e motore della politica non può essere intesa come esclusione di un eventuale ed eccezionale ricorso alla violenza. Il pacifismo assoluto, inteso come negazione di tali eventualità, è fede cieca nell'efficacia della nonviolenza, dove l'aggettivo non è una maggiorazione del sostantivo, ma una sua contaminazione con elementi che le sono estranei, appartenenti al mondo dell'irrazionale. [...]
[estratto da: Armido Rizzi "Alle origini della violenza. Il nodo della cultura di pace" 2015]
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