lunedì 12 luglio 2021

 PERCHÉ DATE COSÌ TANTA IMPORTANZA AL "SENSO DEL LIMITE"? FAQ N.8

Perché la potenza di trasformazione dell'ambiente naturale raggiunta dalla tecnoscienza è tale da consigliare di tenerla sotto costante verifica.

Nell'ottica della cultura moderna e contemporanea, il "limite" assume una connotazione più che altro negativa: viene associato a qualcosa che ostacola la libertà e il raggio d'azione dell'attivismo umano. Si tratta perciò di lottare contro tutto ciò che figura come manifestazione di una tale forza limitatrice, considerata ostile nei riguardi del mondo umano.

Quasi tutta la cultura moderna trova il suo orizzonte di senso in questa battaglia contro il limite; le principali filosofie moderne non fanno altro che cercare di giustificare, nobilitare e sistematizzare questa visione bellicosa del mondo, incentrata su una pretesa di fondo, considerata ovvia: il diritto del genere umano - specialmente quello occidentale - a espandersi oltre ogni misura, abbattendo via via gli ostacoli, e poiché tra questi il principale è rappresentato dalla natura, l'appello alla lotta contro di essa diventa un monotono ritornello che accomuna le principali correnti della modernità, siano esse di tipo materialistico o spiritualistico. Bacone, Cartesio, Locke, Kant, Fichte, Hegel, Marx, non hanno fatto altro che proporre alcune varianti sul tema comune di fondo. Scienza e tecnologia diventano i mezzi decisivi per armare la volontà di potenza: è qui che l'antropocentrismo trova la sua elaborazione più potente, andando ben oltre le formulazioni premoderne legate soprattutto alla teologia monoteistica. Quando Francesco Bacone, all'alba della modernità, annuncia che il compito dell'uomo è quello di imitare il più possibile l'onnipotenza di Dio tramite la tecnoscienza, per diventare egli stesso superpotente a immagine di Dio, l'intima connessione tra teologia monoteistica, dominio tecnoscientifico e antropocentrismo diventa evidentissima.

A partire da istanze culturali di questo tipo, ha inizio un gigantesco processo di rimozione dei "limiti" e di espansione economica, tecnologica, scientifica, demografica, il tutto a danno della natura e del mondo non umano in generale, che vengono via via ridimensionati e rimodellati a uso umano: il resto è storia dei nostri giorni. Noi rappresentiamo il prolungamento, forse la fase finale, di un progetto di dominio e di espansione illimitata, iniziato alcuni secoli addietro. Non si può capire pienamente la tendenza fondamentale del nostro tempo - cioè la crescita illimitata - se si dimenticano queste premesse di fondo, che hanno alimentato innumerevoli speranze e illusioni in un mondo migliore. Noi oggi abbiamo il privilegio/responsabilità di verificare che questa portentosa spinta in avanti si è conclusa, e che essa, nonostante alcuni notevoli successi, non ha comunque dato i frutti sperati, ma ha riempito la Terra di rovine e inquietudini con cui fare urgentemente i conti.

Per usare il linguaggio di antiche saggezze che sono state scioccamente derise, siamo in presenza di un enorme squilibrio cosmico, dovuto al fatto che alcune "energie" (umane, economiche, tecnologiche ecc. ) sono cresciute in modo abnorme, alterando armonie ancestrali con esiti incontrollabili.

Nel corso di questa operazione di verifica dei nostri limiti, necessaria quanto in parte già avviata, è altresì doveroso rivalutare l'importanza dei saperi tradizionali, legati a economie di sussistenza, che hanno garantito la sopravvivenza di molti popoli in condizioni difficili per secoli e millenni: sono proprio le scienze attuali più avanzate, quelle rivolte alla sostenibilità, a riconoscere che su questo terreno abbiamo molto da imparare dalle saggezze e dai saperi preindustriali, dotati di una straordinaria esperienza per quanto riguarda la vita a contatto con la natura e con le sue regole. Un'esperienza che noi abbiamo perduto, essendoci affidati unicamente alla tecnologia, e ritenendo che questa potesse costruire un secondo mondo, quasi sostitutivo di quello naturale.

Il nostro tempo esige un riequilibrio, un passaggio dall'età dell'eccesso a quella della moderazione, della sufficienza, del bastevole: occorre riassorbire entro limiti di compatibilità quanto è andato fuori misura: troppi prelievi di risorse, troppi sprechi, troppi consumi, troppo gigantismo economico e tecnologico, troppo protagonismo umano. Non sarà facile: si tratta di ridiscutere le idee basilari che hanno strutturato il sapere di sfondo della modernità, orientato in senso antropocentrico e sviluppista. Nel tentare questa operazione epocale di risanamento, le saggezze cosmocentriche, incentrate sul senso del limite, ci vengono in soccorso: sarà giocoforza cercare di rivalutarle e riattualizzarle, con tutta la creatività di cui saremo capaci.

Letture essenziali

Mario Alcaro, Filosofie della natura, manifestolibri, 2006.

Fritjof Capra, Il punto di svolta, Feltrinelli, 1984.

Carolyn Merchant, La morte della natura. Donne, ecosfera e rivoluzione

scientifica. Dalla natura come organismo alla natura come macchina,

Garzanti, 1988.

Cristiano Viglietti, Il limite del bisogno, Mulino, 2011. Luigi Zoja, Storia dell'arroganza, Moretti e Vitali, 2003.


in:  Bruna Bianchi, Paolo Cacciari,Adriano Fragano, Paolo Scroccaro "Immaginare la società della decrescita-percorsi sostenibili verso l'età del doposviluppo"  2012  Terra Nuova Edizioni

COME PREPARARE LA TRANSIZIONE, IL PASSAGGIO, IL CAMBIAMENTO?  FAQ N.16

La rivoluzione è già al lavoro nelle micropratiche diffuse e nelle reti.

Il bel libro di Paul Hawken, Moltitudine inarrestabile (Blessed Un-rest, in originale, traducibile letteralmente in "benedetta irrequietezza"), contiene la prima ed evidente risposta alla domanda sul come preparare la transizione e il cambiamento dal sistema capitalistico oggi dominante, a una società equa ed ecologicamente sostenibile. La transizione è già in atto, come felicemente descritto dalla metafora dello stesso Hawken del sistema immunitario che crea gli anticorpi alla malattia, provocata dal mito nefasto e irresponsabile della crescita infinita in un mondo con risorse finite.

Con il linguaggio della filosofia della scienza si può affermare che le buone pratiche, la nostra "moltitudine inarrestabile", sono esperimenti che confutano il modello oggi dominante, la teoria economica neoclassica, secondo cui il sistema dei mercati capitalistici autoregolati sarebbe l'unico in grado di promuovere il benessere individuale {dell'homo oeconomicus) e, per sommatoria, il benessere sociale, garantendo la libertà individuale.

Il catalogo delle "buone pratiche" è davvero vasto: gruppi di acquisto solidali, banche del tempo, laboratori di autoproduzione, uso dei free software, microcredito, radio e tv di strada, welfare dal basso e di prossimità, last minute market, mobilità dolce e auto condivise, cohousing, cooperative di auto recupero, gestione condivisa dei beni comuni e molto altro [vedi Faq n.17]. Insomma, tutto ciò che ricostruisce legami e rapporti sociali e favorisce relazioni non mercificate.

A questo punto dobbiamo porci la domanda: è sufficiente che le buone pratiche si sviluppino spontaneamente e che, a un dato punto di saturazione, determinino un salto di paradigma, rendendo obsoleta la teoria economica dominante?

A nostro avviso no e per due ragioni che ci derivano dall'esperienza storica. La prima ha a che fare con il tempo. Un sistema economico come quello capitalistico si è costruito nell'arco di secoli, creando poco per volta le proprie istituzioni e le proprie teorie di sostegno: Adam Smith ha "scoperto/giustificato" e non "inventato" l'economia politica classica. Ma le nostre generazioni non hanno altrettanto tempo a disposizione per creare una nuova società basata su una diversa economia e su nuove istituzioni che la sorreggano. La limitatezza delle risorse naturali e il sommarsi delle disuguaglianze sociali fanno pendere la bilancia dalla parte del no [vedi Faq n.2].

La seconda ragione che la storia suggerisce è la capacità del sistema capitalistico di mutare, di assorbire le spinte al cambiamento, fagocitandole, piegandole ai propri fini. Anche in questo caso vale una metafora medica, quella del virus mutante in grado di aggirare le difese immunitarie, o paradossalmente, quella dello stesso sistema immunitario che sviluppandosi disordinatamente crea la malattia autoimmune, distruggendo il corpo che vorrebbe difendere. Pensiamo, concretamente, alla green economy che, nelle mani delle forze del mercato, può essere più utile a rigenerare il capitale che non gli ecosistemi naturali.

Per promuovere il cambiamento, tenuto conto dei due vincoli/pericoli sopra evidenziati, possiamo affermare che la via delle buone pratiche è sbagliata? Assolutamente no, ma possiamo affermare che sono la condizione necessaria ma non sufficiente per raggiungere lo scopo.

Occorre allora avere un qualche progetto che ci permetta di raggiungere l'obiettivo nel poco tempo ancora a nostra disposizione. Anche in questo caso possiamo ricavare buone indicazioni dalla storia: un progetto calato dall'alto va incontro al fallimento, perché imposto da una minoranza che per realizzarlo deve ricorrere alla violenza, così che la cura diventa peggiore del male.

Nel suo libro Hawken fa una giusta osservazione: la caratteristica della sua "moltitudine" è quella di avere una scarsa capacità di coesione, di condividere obiettivi a lungo termine. Perché? Perché i soggetti che la compongono sono tanti e si trovano a livelli e tempi di maturazione differenti, e perché muovono da motivazioni diverse.

Allora la transizione può essere vista come un obiettivo a medio termine, dove le buone pratiche imparano a fare fra loro rete, a interagire costruendo economia solidale "pezzo a pezzo", sperimentando e condividendo obiettivi, valori e nuove istituzioni per una nuova economia.

Fra le varie proposte che si stanno evidenziando, di particolare interesse è quella che punta alla costituzione di distretti di economia solidale, ovvero realtà territoriali delimitate dove le buone pratiche si organizzano in comunità capaci di rendersi autonome, almeno per la soddisfazione dei bisogni di sussistenza (mangiare, riscaldarsi, relazionarsi). Il "Km Zero", le filiere corte, le "8 R" di Latouche, sono tutti pezzi di un mosaico che possono trovare nella cornice del distretto una loro coerenza progettuale, in grado di innescare un processo di transizione che vada a buon fine.

Letture essenziali

Takis Fotopoulos, Per una democrazia globale, Elèuthera, 1999. André Gorz, lluscita dal capitalismo è già cominciata, in Ecologica, Jaca Book, 2009.

Paul Hawken, Moltitudine inarrestabile. Come è nato il più grande movimento al mondo e perché nessuno se ne è accorto, Edizioni Ambiente, 2009.

Rob Hopkins, Manuale pratico della transizione, Arianna, 2009. Serge Latouche, La scommessa della decrescita, Feltrinelli, 2006.

Siti

www.retecosol.org

in:  Bruna Bianchi, Paolo Cacciari,Adriano Fragano, Paolo Scroccaro "Immaginare la società della decrescita-percorsi sostenibili verso l'età del doposviluppo"  2012  Terra Nuova Edizioni

 FAQ N.14   CHE RUOLO AVRÀ L'IMMAGINARIO?

Tra l'incubo della catastrofe e la fede insensata nel progresso, l'alternativa è concepire un pensiero davvero libero.

Nella società di mercato siamo tutti spinti a pensarci come consumatori: di prodotti, di immagini, di politica, di relazioni. Gli esseri umani stessi, alla fine, divengono prodotti di consumo, si esibiscono e si reclamizzano, si comprano e si vendono, si usano e si gettano, come qualsiasi altra merce. Naturalmente nessuno di noi, nemmeno l'individuo più intossicato dal consumo, è solo questo, ma ci comportiamo come se fosse così. Sperimentiamo una forte difficoltà a immaginarci tranquilli se non siamo circondati da tutta una serie di oggetti e di segni che costituiscono il nostro mondo e i nostri strumenti. Fatichiamo sempre più a relazionarci tra di noi senza un piacere immediato o senza un qualunque fine strumentale. C'è come un'assuefazione a certi modi di vedere, a certi obiettivi condivisi, ma soprattutto a certe abitudini, entrate passo dopo passo nella nostra vita, che ci impediscono d'immaginare qualcosa di diverso: parlare in termini di utilità, di profitto, di guadagno, di azioni, di investimenti, di prestiti, di rate, di tassi di interessi, di crescita, di spread, di derivati, sembra divenuto così comune che la gente non fa più caso a come questo immaginario abbia intossicato il nostro stesso linguaggio, la nostra comunicazione, persino il pensiero della vita o di noi stessi.

Eppure un paradosso sta crescendo nel cuore del nostro immaginario. In effetti la civiltà che più di ogni altra ha preteso di proiettarsi nel futuro tramite la tecnologia e la ricerca spasmodica del nuovo con la svalutazione del passato, tramite l'ossessione per la crescita e una fiducia illimitata nel meccanismo del credito e delle scommesse finanziarie, in realtà si sta sporgendo di fronte a un baratro, con il dubbio di non poter sopravvivere a se stessa. Questa mercificazione pervasiva, estesa anche al futuro, finisce per minacciare l'esistenza stessa del presente. Come affermano gli psicoanalisti Miguel Bena-sayag e Gérard Schmit, stiamo assistendo al «cambiamento di segno del futuro», ovvero al passaggio da un futuro-promessa al futuro-minaccia.

Una simile società non ha avvenire, non solo per ragioni ecologiche, ma anche per ragioni antropologiche e sociali, e non è affatto strano che i paradossi del nostro immaginario si trasformino in incubi. Il nostro inconscio collettivo è abitato dall'attesa della catastrofe: dalla letteratura al cinema, dai fumetti alla televisione, il nostro immaginario, il nostro inconscio collettivo, è saturo di immagini di (auto) distruzione. In qualche misura dunque percepiamo la smisuratezza della nostra potenza distruttiva ma non siamo in grado - o abbiamo paura - di disarmare la nostra civiltà, la nostra tecnologia, la nostra economia. Così il paradosso è che più l'immaginario del progresso, della crescita, dello sviluppo illimitato si spinge avanti, e più chiude l'immagine del futuro, svuotando e atrofizzando il senso del nostro essere umani. L'onnipotenza si capovolge in minaccia contro se stessi, l'illusione della libertà assoluta si tramuta in depressione.

Oggi è necessario fuggire non da uno ma da due incubi. Parlo dell'assuefazione alla catastrofe, nella sua doppia forma della denegazione dell'ottimista tecnologico ("Non esiste nessuna crisi ecologica, nessun cambiamento climatico, nessun picco del petrolio, nessuna estinzione delle specie... la scienza troverà la soluzione, la tecnologia ci salverà") o del compiacimento, dell'attrazione fatale per l'autoannichilimento ("Non c'è niente da fare, il mondo continuerà anche senza di noi"). In effetti non solo la fiction, ma anche la scienza si risolve sempre di più a gestire la catastrofe senza prevenire, offrendoci strumenti per adattarci alla nuova situazione, palliativi per ritardare il peggio. «Una tale scienza - come aveva previsto Guy De-bord - può soltanto accompagnare verso la distruzione il mondo che l'ha prodotta e che la possiede; ma è costretta a farlo a occhi aperti».

L'immaginario della decrescita rappresenta oggi il tentativo di trovare un'alternativa a questi due incubi insensati, un ottimismo superficiale e in fondo violento e un pessimismo consolatorio. La realtà dolorosa è che almeno nei paesi più sviluppati non dobbiamo batterci solo contro le multinazionali, contro i governi, ma anche contro le nostre abitudini, i nostri stili di vita, le nostre scelte quotidiane, i nostri pensieri, e le centinaia di atti irriflessi che compiamo ogni giorno.

In questa prospettiva, ciò che è difficile oggi non è tanto immaginare un futuro alternativo, ma piuttosto concepire la nostra liberazione dalla rete di assuefazioni e dipendenze che ci siamo costruiti. Il pensiero stesso che tante cose, oggetti, abitudini, sicurezze, potrebbero scomparire molto velocemente e costringerci in tempi brevi a modificare le nostre abitudini, a riorganizzare le nostre vite, ci è in buona misura inconcepibile. Per questo, per andare incontro al cambiamento, dobbiamo esercitare il nostro immaginario volgendo gli occhi contemporaneamente verso l'interno everso l'esterno: a ciò che accade nel mondo attorno a noi, a ciò che accade dentro di noi, a ciò che accade nell'interazione continua fra i due.

Il tema della decrescita si gioca non in una versione negativa - al contrario - della società della crescita, ma nella costruzione di una pratica sociale più ricca e appassionata, di ciò che può nascere tra di noi, a partire da chi siamo e da quanto siamo disponibili a metterci in gioco. Da questo punto di vista, coloro che si raffigurano la decrescita come una proposta generosa ma utopista, e chi al contrario la immagina come una forma di autocastrazione o di automutilazione, sono entrambi in errore. La decrescita è la riscoperta del desiderio di vivere attraverso l'accettazione profonda della finitezza, della contingenza e dunque della fondamentale fragilità della vita.

Letture essenziali

Gunther Anders, Luomo è antiquato. Considerazioni sull'anima nell'epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, p. 252.

M. Benasayag e G. Schmit, Lepoca delle passioni tristi, Feltrinelli, 2005. Guy Debord, Il pianeta malato, nottetempo, Roma, 2007. Marie-Louise von Franz, Il mondo dei sogni, Tea, 1996. Slavoj Zizek, Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi, 2002.


in:  Bruna Bianchi, Paolo Cacciari,Adriano Fragano, Paolo Scroccaro "Immaginare la società della decrescita-percorsi sostenibili verso l'età del doposviluppo"  2012  Terra Nuova Edizioni

 L'educazione

I nuovi cittadini di una futuribile società libera vivranno in un sistema economico e sociale dove non si crescerà all'infinito, ma si vivrà rispettando le possibilità individuali, collettive e soprattutto del pianeta che è la casa comune dei viventi, e dove la collettività cercherà l'orizzontalità - intesa come uguaglianza e condivisione - e non la verticalità come imposizione del più forte grazie alla sua posizione di privilegio.

Rispetto, solidarietà, spirito di condivisione e convivenza, empatia tra individui della stessa specie e tra specie diverse, potranno diventare le vere fondamenta della società solo se le nuove generazioni saranno abituate a considerarle tali: la scuola del futuro avrà un enorme lavoro da compiere per essere realmente il veicolo di un nuovo concetto di educazione e di società. Non più un'educazione che propini un modello cui aderire, ma che spieghi, che punti alla consapevolezza e alla responsabilità individuale, che proponga e che ascolti, mettendo a disposizione gli strumenti necessari all'individuo per una vera realizzazione come singolo e come elemento della collettività.

Tra gli strumenti della scuola del domani, dovrebbero del tutto mancare concetti legati alla gerarchia, alla sopraffazione, alla discriminazione e più in generale alla violenza: se non saremo più educati e abituati alla violenza, essa difficilmente potrà farsi spazio tra le nostre idee. Soffermiamoci per un momento a pensare a quanta aggressività è presente in ogni ambito ludico, educativo, commerciale e culturale che interessa i minori: la violenza è onnipresente, nei libri di testo scolastici, nelle favole e nelle storie per i più piccoli, nei giocattoli, nelle pubblicità commerciali, nei cartoni animati e nei film.

Secondo Giuliano Pontara (uno dei maggiori studiosi e conoscitori a livello internazionale del pensiero di Gandhi), una società nonviolenta potrà esistere solo se avvierà un programma di educazione permanente alla nonviolenza, volto allo sviluppo di personalità nonviolente all'interno di un contesto educativo libero, improntato alla tolleranza e privo di dogmatismi e imposizioni, in cui non dovrebbe esistere l'ottica dell'infallibilità degli insegnamenti e dei saperi (leggasi dei dogmatismi).

Il primo passo per la futura società dell'acrescita è quindi l'educazione nonviolenta dei suoi nuovi membri, che potrà essere gradualmente raggiunta proprio abbandonando ciò che oggi viene insegnato a scuola: il rispetto di regole e di modelli educativi obsoleti (voti, pagelle, punizioni, coercizioni), l'organizzazione verticale dell'insegnamento, la contrapposizione tra insegnante e studente, il carrierismo, la competizione e l'arrivismo delle facoltà universitarie, tutto questo dovrà scomparire per far spazio a modelli d'insegnamento liberi, aperti al contatto con la natura e con gli altri, per imparare a conoscere, comprendere e rispettare, e non per soggiogare o sfruttare. Un modello educativo sostitutivo basato non su una visione violenta e antropocentrica, ma sull'empatia, sull'imme-desimarsi degli studenti nell'altro, sul comprenderne le istanze, sul condividerne la visione per riuscire a schierarsi sempre dalla parte di chi è più debole e svantaggiato. In questo modo si potrebbe favorire una cultura egualitaria in grado di tenere fuori dalla vita pubblica e privata atteggiamenti intolleranti, violenti o di sopraffazione, perché per combattere il mito della violenza è necessario costruire una vera e propria alternativa psicologica, che lo sostituisca in toto.

Nella nostra scuola immaginaria si dovrebbe studiare il ruolo dell'Umano nella sua globalità e in relazione con le altre specie viventi e con il pianeta. Sarebbe necessario quindi un contatto diretto e costante con la materia di studio più importante: cosa e chi ci circonda. Tra le numerose opzioni è fondamentale, come suggerisce Fritjof Capra nel suo bel libro Ecoalfabeto. L'orto dei bambini, spiegare in modo semplice e diretto ai più piccoli come coltivare un orto scolastico, anche per far comprendere un pensiero, definito «sistemico»11, che li aiuti a rispettare la fitta rete di rapporti che ci lega agli altri viventi e all'ambiente che con loro condividiamo. Seduti in cerchio sull'erba intorno a un orto, bimbe e bimbi potrebbero apprendere il funzionamento (anch'esso circolare) dei cicli naturali, traendo da tali esperienze dei principi di carattere generale:

Quando il pensiero sistemico viene applicato allo studio delle relazioni multiple che collegano tra loro i membri della famiglia terrestre, si possono distinguere alcuni principi di base. Possono essere chiamati principi ecologici, principi di sostenibilità, o principi comunitari; oppure si possono persino chiamare i fatti essenziali della vita. Serve un programma scolastico che insegni ai nostri bambini i seguenti fatti fondamentali della vita:

- che un ecosistema non genera rifiuti, dato che gli scarti di una specie sono il cibo di un'altra;

- che la materia circola continuamente attraverso la rete della vita;

- che l'energia che alimenta questi cicli ecologici deriva dal sole;

- che la diversità garantisce la capacità di recupero;

- che la vita sin dai suoi primordi, più di tre miliardi di anni fa, non ha conquistato il pianeta con la lotta ma con la collaborazione, l'associazione e la formazione di reti.

Insegnare questa coscienza ecologica, che è anche un'antica saggezza, sarà la funzione più importante dell'istruzione nel prossimo secolo.

Attraverso una vera e profonda coscienza ecologica, le generazioni future potrebbero reimparare a rapportarsi correttamente con la natura anche attraverso ecoalfabeti come quelli proposti da Capra, che in sostanza non sono altro che lezioni non su, ma con chi vive su questo pianeta insieme a noi. Attraverso la realizzazione e la cura dell'orto, i bambini si abituerebbero a pensare al funzionamento ciclico naturale dove tutto deve essere fatto e rifatto senza soluzione di continuità. L'idea stessa di studiare producendo e tutelando un orto - godendo anche dei suoi frutti - eviterebbe il distacco culturale e ontologico dalla natura come invece avviene ora, e permetterebbe ai più piccoli di rimanere in contatto con le esigenze e i ritmi naturali comprendendoli, apprezzandoli, e soprattutto facendoli propri.

Una nuova educazione alla tolleranza e al rispetto può passare in questo modo anche attraverso il concetto del pianeta Terra come un organismo vivente complesso13, capace di autoregolarsi, di reagire alle diverse situazioni per ripristinare un equilibrio, e di sopravvivere proprio grazie a una complicata e mirabile rete di rapporti tra viventi e non viventi. Questo e altri concetti simili aiuterebbero a comprendere che ogni nostra azione ha delle ripercussioni sugli altri, intesi come abitanti o compagni che condividono con noi la Terra, e sul pianeta stesso.

Aule, banchi, mura o edifici scolastici, potrebbero essere semplicemente sostituiti da lezioni all'aperto o all'ombra di un grande albero, dove tenere incontri liberi di persone di ogni età, così da poter osservare, capire e studiare, ma anche proporre e commentare, il tutto attraverso un nuovo linguaggio, un lessico che, tornando alla questione evidenziata da Pontara, non comprenda più il vasto repertorio di termini, utilizzati giornalmente, che sono veicolo di concetti di violenza e sopraffazione. Imparare a comunicare senza ricorrere a stereotipi e archetipi che sottendono un pensiero discriminatorio è la base per un corretto approccio all'esistenza: il linguaggio non serve solo a comunicare, ma plasma i concetti espressi e di conseguenza forma le menti, ed essendo inoltre il mezzo con cui si descrive la realtà, ne permette una descrizione parziale condizionandone la percezione stessa14. Indubbiamente il linguaggio che siamo abituati a impiegare - che la scuola, la famiglia, la società, i mass media ci hanno abituato a utilizzare - serve per trasmettere l'idea che la nostra società ha del mondo: un'immensa risorsa da sfruttare a nostra completa disposizione. Leggendo un qualsiasi quotidiano o seguendo un programma televisivo, è possibile rendersi immediatamente conto che esistono ben poche parole per comprendere e solidarizzare con gli altri, ma ne esistono moltissime per offenderli, denigrarli e attaccarli.

A volte non possiamo esprimere un nostro pensiero, un'emozione, un sentimento semplicemente perché non troviamo le parole adatte per farlo, questo a causa di una nostra personale povertà lessicale, ma anche perché in effetti il linguaggio che utilizziamo non sempre è in grado di dare una forma adeguata ai nostri pensieri15. Tuttavia questa difficoltà non si manifesta quasi mai quando vogliamo trovare giustificazioni al nostro comportamento individuale o di specie: la nostra è una modalità espressiva egoistica e autogiustificativa, c'è poco spazio per l'empatia e per l'altruismo nelle parole che conosciamo.

I membri della nuova società umana non dovrebbero più esprimersi come facciamo adesso, ma potrebbero utilizzare linguaggi e concetti molto più ampi e slegati dalla nostra presunta "eccezionalità" di specie. Questo non solo per avviare una nuova fase di rapporti intraspecifici, che ci permettano di confrontarci con gli altri senza stabilire immediatamente delle gerarchie, ma soprattutto per adottare una nuova visione nel nostro rapporto con gli Animali, che oggi sono esclusi dal nostro immaginario e sono relegati al mero ruolo di beni, oggetti o esseri inferiori.

La centralità della questione animale è a mio avviso indiscutibile: i rapporti che abbiamo con gli Animali sono al contempo causa ed effetto dei rapporti che poniamo in essere nella nostra società con i nostri simili, e della stessa visione che abbiamo del nostro ruolo su questo pianeta (come vedremo in dettaglio fra breve). Non per nulla le frasi con riferimento negativo agli Animali nel nostro lessico quotidiano si sprecano, una fra tutte "trattati come Animali"16. Un nuovo linguaggio, liberato da concetti arcaici e violenti e da stereotipi antropocentrici, potrà rappresentare la base per una diversa interpretazione dell'alterità17, adottando nuove forme idiomatiche orientate all'espressione dei sentimenti personali, all'esplorazione della sfera emotiva e al rispetto delle altrui esigenze e caratteristiche.


in:  Bruna Bianchi, Paolo Cacciari,Adriano Fragano, Paolo Scroccaro "Immaginare la società della decrescita-percorsi sostenibili verso l'età del doposviluppo"  2012  Terra Nuova Edizioni

Ecoalfabetizzare, cioè investire in un capitale culturale adatto al nostro tempo

Il concetto di capitale culturale, o di ecoalfabetizzazione può sembrare qualcosa di astratto, ma non è così. Ogni civiltà ha avuto il suo capitale culturale, che l'ha caratterizzata in senso qualitativo, permettendole di instaurare un determinato rapporto tra uomo e natura. Il capitale culturale dell'antica Grecia era costituito, almeno in parte, da una paideia del senso del limite, cosmocentricamente orientata. Il capitale culturale degli ultimi secoli invece si è configurato in senso sviluppista e risulta ormai del tutto inadeguato: oggi abbiamo bisogno di un capitale culturale di tutt'altro genere, che possiamo indicare con il termine ecoalfabetizzazione. Come ha ben spiegato Fritjof Capra in vari interventi, tutta la nostra società ha bisogno di alfabetizzazione ecologica, compresi ovviamente i politici, i dirigenti, gli impresari, gli amministratori, gli insegnanti: questo perché in linea di massima si continua a operare assurdamente come se ci si trovasse in un contesto di "mondo vuoto", e già questo è un chiaro segnale preoccupante di analfabetismo ecologico.

L'ecoalfabetizzazione insegna che, nel mondo ipersaturato di oggi, le vecchie parole d'ordine (crescita, sviluppo quantitativo, espansione ecc.) sono pericolose e controproducenti, per cui occorre da subito una nuova strumentazione culturale per orientarsi nella società complessa del "mondo pieno". Ecco perché è assolutamente indispensabile e prioritario investire in un capitale culturale adatto al nostro tempo, cioè in ecoalfabetizzazione: i passi successivi richiedono preventivamente questo minimum di consapevolezza storica ed ecologica, e tutto sarà più logico e scorrevole. Per esempio, risulterà più facile approvare l'idea secondo cui le politiche territoriali non devono essere per forza votate alla crescita del PIL; allo stesso modo, diventerà ovvio valutare qualsiasi iniziativa economica nei suoi aspetti positivi e negativi, senza occultare o sottostimare le esternalità negative. Qui di seguito ricapitoliamo alcune indicazioni di fondo, dal valore strategico, che ne derivano.

Ecosistemi e aree selvagge al primo posto

Le politiche territoriali devono mettere al primo posto la protezione e la valorizzazione degli ecosistemi e dei relativi servizi, che costituiscono la base indispensabile della rete della vita. L'economia ecologica insegna che nella nostra epoca il cosiddetto "fattore limitante" più significativo non è la carenza di forza lavoro, e nemmeno di energia, come accadeva in epoche precedenti alla nostra, bensì il cosiddetto "capitale naturale", espressione un po' antipatica, ma che in definitiva indica le risorse naturali, i sistemi ecologici, cioè la natura nel suo insieme. Abbiamo visto che l'avanzare della crescita comporta il progressivo degrado di molti ecosistemi, in molti casi irreversibile: poiché non stiamo parlando di manufatti replicabili o sostituibili, è evidente che il declino e il restringimento degli ecosistemi costituisce per la nostra epoca e per il futuro il fattore limitante per antonomasia.

Proprio per questo il capitale naturale dovrebbe stare in cima alle preoccupazioni politiche, amministrative e paesaggistiche del nostro tempo. Come fanno i governi a non tenerne conto? In fin dei conti stiamo parlando di cose ovvie che tutti dovrebbero sapere: ma i popoli cosiddetti civilizzati hanno perso questa consapevolezza elementare, il che la dice lunga sul loro grado di deculturazione rispetto a popolazioni tribali considerate incivili e primitive.

in:  Bruna Bianchi, Paolo Cacciari,Adriano Fragano, Paolo Scroccaro "Immaginare la società della decrescita-percorsi sostenibili verso l'età del doposviluppo"  2012  Terra Nuova Edizioni